L’incisione e l’acquarello sono due tecniche opposte: l’una è segno, l’altra colore.

Ma i risultati hanno in comune la vaghezza, l’impalpabilità, l’inafferrabilità del ricordo, della lontananza. E non a caso Sabina Romanin sceglie queste due tecniche per esprimersi.

I soggetti più rappresentati dall’artista sono scorci di paese o di natura, ma non sono rappresentazioni di una realtà animata, ma di un mondo fermo e disabitato, in cui restano come testimonianza i segni incisi dal tempo: le crepe su nude facciate di vecchie abitazioni; le venature e le irregolarità di antiche cicatrici sui tronchi degli alberi.

Ma una figura, un alito di vita anima questo universo dimenticato, riportato a galla da un animo tanto sensibile quanto melanconico.

E’ una staticità che non da pace ma tormento, visioni immobili che suscitano i movimenti dell’anima.

L’esiguo spazio in cui sono costretti queste sezioni di mondo e il disagio che suscitano come specchi della tua solitudine fanno sì che tu ti senta respinto, non attratto all’interno dell’opera: i muri delle case sono invalicabili barriere in cui scalini diroccati, porte sprangate e profonde ombre dietro le finestre le rendono inaccessibili e inquietanti; sulle soglie di un bosco tre tronchi imponenti impediscono l’ingresso come imperturbabili guardiani.

Questa muta inquietudine si avverte anche quando l’artista sceglie come soggetti gli animali. Essi sono raffigurati nei loro più tipici movimenti, ma bloccati come fossili.

L’autrice sembra voler rappresentare non il singolo animale ma tutta la specie che da milioni di anni ha le stesse fattezze e lo stesso sbatter d’ali.

IVANO LEDDA

GIULIO ALTARNI

FRANCO ANSELMI

MARIO ANTONINI