TRIPLO TOUCHE! – LO SPETTACOLO

Lo spettacolo, un racconto recitato e musicato, è la trasposizione teatrale di “Triplo Touche!”, la biografia del batterista pordenonese Nevio Basso incentrata negli anni Sessanta e Settanta, quando il musicista suonava nei più bei locali d’Europa.

Le scene rappresentate sono episodi di vita vissuta adattati ad uno spettacolo teatrale che, tra musica, balletti e burlesque, rivela il carico di sentimenti e stati d’animo dei protagonisti. Questi ultimi non sono gli avventori dei locali, cioè gente ricca, personaggi famosi del mondo del cinema, dell’imprenditoria, della politica, ma coloro che in questi locali ci lavoravano: musicisti, ballerine, entraîneuse, direttori di locale, spogliarelliste, ruffiani, prostitute d’alto bordo… Ma anche contestatori sessantottini, emigranti italiani, affittacamere, gente insomma che satellitava intorno a questi locali o che viveva nelle stesse metropoli e negli stessi rinomati centri di villeggiatura.

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Il protagonista si racconta insieme a Romy, grande ma breve amore di Nevio in quegli anni. I due, nel doppio ruolo di narratori e di interpreti di sé stessi, passano di volta in volta dal proscenio, che rappresenta idealmente il presente, l’epoca del pubblico a cui si rivolgono, al palcoscenico, luogo del passato, in cui si svolgono le scene.

I brani musicali sono protagonisti al pari degli attori: la band è sempre in scena ed è posta al centro del palco, come un perno attorno al quale ruotano le storie. La batteria, in particolare, è protagonista tra i protagonisti, essendo il suo suono quasi sempre presente per accompagnare i brani, sottolineare i momenti salienti, ricreare rumori e suoni ambientali, battere il tempo, tempo inteso come ritmo e come chronos: la batteria diventa un metronomo che scandisce lo scorrere della vita, il cuore pulsante di tutta la rappresentazione.

Nostra premura è stata rispettare i personaggi, anche quelli che hanno lasciato di sé al mondo solo briciole di ricordi (molti non ci sono più), conferendo loro un’aura dignitosa, nobile, atemporale, celatamente malinconica, come di fantasmi del passato venuti loro malgrado a farci emozionare. I brani musicali sono rivisitati, a volte in chiave moderna, a volte in chiave onirica, come echi di musiche lontane. Il nostro intento non è stato, infatti, replicare una realtà passata, ma evocare un ricordo che ha l’essenza di un sogno.

 

NELL’OCCHIO DELL’ANATRA – BREVI STORIE VERE DI ANIMALI

NOI, ANCHE UN PO’ ANIMALI

Formiche che si azzuffano in epiche battaglie, cani che fanno stragi di galline ma anche cagne che allattano capretti, pipistrelli intrusi e cavalli altezzosi e indifferenti: ecco l’universo che popola queste pagine, un universo di uomini e animali che allegramente e faticosamente cercano di vivere insieme. Per essere precisi tutti gli animali (e qualche persona) che hanno attraversato la vita di Manuela Caretta, e che ancora la popolano. Un racconto di famiglia, o meglio tanti racconti, quindi, ma soprattutto una vita, la sua, letta attraverso questa chiave un po’ particolare: io e gli animali, o forse sarebbe meglio dire gli animali ed io, perché come vedremo, non è ben chiaro chi abbia dato di più, chi abbia insegnato di più.

Libri di animali e sugli animali ce ne sono tanti in circolazione, ma questi dodici racconti ci paiono interessanti per diverse ragioni. Intanto, come si diceva, sono gli animali che scandiscono una vita, e mentre leggiamo di cani e cavalli vediamo scorrere gli anni di una ragazzina, di una famiglia, partecipiamo come fra le righe a piccoli e grandi episodi di una saga: l’infanzia di Manuela, il padre, la sorella, l’università. Una scrittura articolata, dunque, che finisce per coinvolgere l’autrice in primissima persona, per raccontarci di lei in una chiave che lei stessa ha scelto e che pertanto è ancora più significativa. Per raccontare di questo processo identificativo basti pensare alle tavole, dipinti dei suoi animali, una sorta di fantastica galleria zoologica: chi conosce Manuela sa che fra le altre cose è una bravissima pittrice, un’artista che ha fatto della sua vocazione una ragione di vita e un mestiere, e anche attraverso questo omaggio grafico ha voluto trasmetterci il suo coinvolgimento, e coinvolgere noi lettori.

Racconti vissuti, insomma, con l’emozione e l’interesse di bambina, ma anche guardati ora a distanza di anni con un interesse cresciuto, con un distacco che nulla toglie all’affetto e alla passione. Ogni racconto è accompagnato da una serie di brani ricavati da celebri etologi o zoologi che in una dimensione scientifica confermano quelle stupefacenti caratteristiche che chi ama gli animali aveva già osservato da sé: cani preveggenti, cavalli che mostrano emozioni, galli con cervelli di rettili e cose così, stupefacenti e istruttive. Passano pagina dopo pagina i grandi nomi di Konrad Lorenz, Danilo Mainardi, i padri dell’etologia, e il dialogo dà spessore, arricchisce di spunti quel rapporto uomo-animale che è al centro del libro ma è anche una costante di questo nostro esserci nel mondo. Si scopre, in questo percorso sospeso fra scienza e quotidianità, una cosa che tutti sospettavamo ma che a volte ci pesa un po’ ammettere: anche i nostri comportamenti, la nostra possessività, territorialità, crudeltà, generosità sono frutto di evoluzioni genetiche e di adattamenti ambientali al pari di quelli dei nostri cugini animali, e questo ci dovrebbe insegnare un paio di cose. Intanto a guardarli con maggior rispetto riconoscendo in loro, potenziate o embrionali, le stesse emozioni e gli stessi comportamenti che abbiamo noi; in secondo luogo a guardare noi stessi con maggior disincanto e realismo, riconoscendo dentro i nostri gesti una buona dose di natura che grazie a Dio la cultura non ha ancora cancellato del tutto. Emblematico il caso della bambina che, incapace di entrare in relazione in altro modo, riscopre la forma primitiva, ancestrale, il morso: la trovate nel racconto sui morsi, assieme al pointer Sniff, al cane Chicco e al gatto di un’amica. Si noti, un racconto sui morsi, a conferma che le storie di queste pagine sono davvero vissute, passate attraverso la pelle di Manuela e quindi intrise di una verità profondissima.

Racconto dopo racconto le suggestioni si moltiplicano, e a guardare bene si potrebbe rintracciare un disegno, una argomentazione che passo dopo passo ci porta in una direzione precisa: ogni gradino uno spunto, un aforisma preciso su cui riflettere. Si comincia con la guerra, e con animali che per certi versi appartengono all’ultimo gradino fra quelli con cui abbiamo a che fare, le formiche; come a dire, leggendo al contrario, che la guerra ci precipita nei primordi dell’evoluzione, fa di noi uomini poco più che insetti. È un discorso sulla violenza che troviamo nel Velociraptor, nei morsi, nell’alba rosso sangue e nel gesto indifferente dell’animalista (che non a caso, in un richiamo a distanza forse inconsapevole, schiaccia formiche per divertimento). Una serie negativa cui si interseca, quasi in alternanza pari dispari, una serie positiva: dall’autonomia libera di Rudy al senso materno di Matìa, alla struttura, architettonica e politica della “città di carta”, forse anche alla serena e saggia accoglienza di Mary per il pipistrello intruso. Come dire che negli animali in fondo possiamo anche specchiarci, che vi ritroveremo lo stesso difficile intrico di violenza e amore con cui dobbiamo destreggiarci tutta la vita. Nell’ultimo racconto una cosa in più, che mette un suggello e salda le contraddizioni: si parla della capacità di alcuni animali di percepire oltre la superficie del reale e del quotidiano, un sesto senso appunto, di percepire i malesseri degli uomini, di consolare, di ricucire dissidi. Perfino di apparire in sogno ed esserci vicino in quella vita al di là della coscienza di cui noi sappiamo pochissimo e con cui loro forse hanno mantenuto ancora una maggior confidenza.

Nel libro, democraticamente, si trovano figure indimenticabili di animali, dal cavallo Annie, supremamente indifferente a tutte le lusinghe umane, al senso materno della cagnetta Matìa, alla inossidabile autonomia del bassotto Rudy: solo qua e là compare qualche umano, e di solito ci facciamo una figura un po’ ingenua o addirittura meschina. Così l’amica animalista, che forse di animalismo aveva scopiazzato solo la facciata, ma anche la stessa autrice terrorizzata davanti ad un gallo prepotente o, già adulta, davanti ad un pipistrello che fa irruzione in camera. Una guida in questa ricerca di un rapporto con l’animalità del mondo Manuela pare averla trovata in suo padre, che rievoca in tanti racconti e a cui rivolge parole commosse: il padre che, preso dalla foga tutta umana di aiutare, finisce per scambiare il proprio cane con un intruso o che, saggiamente, sa come comportarsi davanti alla follia omicida del cane che gli stermina il pollaio. Da lì sarà arrivata questa passione per un mondo semplice che da millenni ci scorre vicinissimo, con sue leggi e sue regole: un mondo da cui siamo venuti anche noi e che dovremmo imparare a rispettare per quello che è, restituendogli quella dignità che intimamente possiede e che in fondo è anche la nostra.

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DUILIO KOROMPAŸ (1876-1952)

Tesi di laurea, riveduta e corretta, del 1993 sul pittore Duilio Korompaÿ. L’artista, veneziano di origine ungerese ma vissuto a lungo a Pordenone, fu molto apprezzato dai sui contemporanei, tanto da partecipare, a Venezia, a varie Biennali d’Arte. D’estremo interesse sono in particolare le opere “private”: paesaggi e ritratti realizzati tamite colori e pennellate che per immediatezza e capacità evocativa sono riconducibili alla pittura impress

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TRE CIVETTE SUL COMÒ – i giochi: primo strumento d’indagine di sé e del mondo

“Il mio gioco era dettato dallo stesso impulso che ebbe l’uomo primitivo a crearsi divinità per non avere paura, per non sentirsi solo, per darsi una ragione, una spiegazione, un punto di riferimento che sostituisse la madre da cui era stato eviscerato e dalla quale fu per anni nutrito e difeso. Io ero quell’uomo (o donna, poco importa) che scolpiva la Venere di Willendorf, che seppelliva i suoi morti con ghirlande di fiori e ossa di animale, che venerava amuleti all’interno di nicchie.”

Nella convinzione che esista un parallelismo tra l’evoluzione di un essere umano durante la sua vita e l’evoluzione dell’umanità nel corso della storia, ho preso in esame i giochi, insieme al disegno prima espressione di un individuo. Tra questi ho privilegiato quelli estemporanei, quelli che io e mia sorella ci inventavamo sul momento, ispiratici da qualcosa che ci capitava tra le mani o che avevamo visto, giochi con un tempo di scadenza, che più che giochi potevano rientrare nell’ambito della recita, della creatività manuale, della sceneggiatura, o toccare sfere ancora più alte senza che noi ce ne rendessimo conto: religione e speculazione filosofica. Ci addentravamo in spazi metafisici, onirici, fantastici alla ricerca di verità superiori, che trascendevano la famiglia, fonte a volte di amarezze e disillusioni. Questo non perché Bruna ed io fossimo più dotate degli altri bambini: sto facendo riferimento a tutti gli esseri umani, perché tutti abbiamo le stesse pulsioni, gli stessi istinti ancestrali, quelli dell’uomo primitivo, che lo hanno spinto verso orizzonti sempre più lontani, verso il trascendente e l’infinito.

Ogni capitolo è corredato da una illustrazione. La tecnica che ho adottato è quella del tratteggio a china. Lo stile fantastico-surreale dei disegni esalta la versione eroica, onirica, border-line che i ricordi restituiscono della realtà. Il disegno è stato la tecnica perfetta per rappresentare ciò che sta al capo opposto dell’inizio, e cioè la sintesi, ciò che resta di quello che si è progettato e vissuto: il ricordo.

 

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TRIPLO TOUCHE! – Un batterista in giro per l’Europa tra gli anni ’60 e ’70

“Nel giugno del ’67 Nevio è al Casinò di Montreux, in Svizzera. Questo, diversamente da quello di Cannes, ha un night club fra i cui tavoli incedono sinuosamente le entraîneuse. Durante lo show, che inizia a

mezzanotte, dopo il balletto, i comici ed i prestigiatori, si esibiscono le spogliarelliste.

Dietro le quinte ognuno ha il suo camerino e nei corridoi si incrociano musicisti ed artisti di varietà. Lì si scambiano racconti di vita e si intrecciando amicizie e relazioni. Arrivano signorine un po’ sciatte in anonimi cappottini grigi, che si lamentano dell’affittacamere che ha dato loro l’ennesimo ultimatum. Si siedono davanti allo specchio e, continuando a parlare nervosamente, si truccano e si vestono trasformandosi in splendide femme fatale. In scena, poco dopo, si sfilano con lasciva lentezza ciò che hanno appena indossato frettolosamente…”.

Il libro racconta la vita di un musicista di una piccola provincia italiana catapultato, negli esplosivi anni sessanta e settanta, in città europee di respiro internazionale, in locali di grido (casinò, night club, dancing, hotel e ristoranti a 5 stelle) frequentati da personaggi famosi e ricchi magnati. Sono efficacemente tratteggiati episodi emblematici di una vita leggera, frivola, che sembra galleggiare sopra un mondo lacerato da conflitti devastanti: dal Sessantotto al Vietnam, dal terrorismo di destra e di sinistra ai delitti di mafia. Le numerose note approfondiscono temi quali l’emigrazione, il razzismo, la prostituzione, l’emancipazione femminile, l’evoluzione dei gusti musicali e la crisi delle orchestre da night.

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Sketchbook-viaggio tra persone e cose

“Nei giorni successivi mi misi all’opera cercando ispirazione nelle foto di bisnonni ed in quelle d’epoca trovate su libri e su internet: ne risultò il volto di un uomo x, un uomo nuovo, mai esistito, la controfigura di quello che fu, di quello che come tutti soffrì, lavorò, lottò per la sopravvivenza, godé del corpo caldo di una moglie, pianse forse la perdita di un figlio piccolo, gioì per la nascita di un nipote, sopportò le malattie e la vecchiaia, sperimentò la morte…”

Gli episodi raccontati nel libro, tutti realmente accaduti, sono semplici, brevi, quasi dei canovacci, apparentemente banali per chi non sappia coglierne l’essenza, per chi si fermi a ciò che è detto o fatto senza indagare, per quanto possibile, su quell’attimo assoluto e irripetibile in cui due o più persone si intersecano intimamente, rivelando l’una all’altra spazi della loro anima e della loro storia.

Tutti i fatti strani, inspiegabili, le coincidenze, gli accadimenti quasi magici che avvengono nelle relazioni tra le persone, sono frutto dell’uomo stesso, della sua capacità di indurre gli eventi con parole e gesti impercettibili, inconsci o meno, e nell’altrettanto spiccata capacità di cogliere tali espressioni negli altri, anche inconsapevolmente. Questo non toglie fascino a tali situazioni, che tanti ascrivono a volontà che ci prescindono, anzi lo potenzia perché ancora una volta l’essere umano dimostra la mirabile complessità delle sue facoltà mentali ed espressive, che ognuno di noi possiede. Non serve essere scienziati o artisti per godere della bellezza dell’esperienza umana, per vivere l’essenza di episodi irripetibili, per partecipare con pienezza alle connessioni umane, anche se brevi, brevissime, della durata di un acquazzone sotto una tettoia insieme a sconosciuti che, con noi, tra gridolini e risate, hanno cercato riparo.

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IL DISTACCO

Alle tre di notte, nel dormiveglia, ho stoppato col telecomando un acuto in romanesco di un qualche cantante, ospite di uno di quei programmi degli anni Settanta che mandano in onda solo a tarda notte per quelle donne di mezza età che soffrono d’insonnia e che non disdegnano un tuffo nel passato quando tutto il resto tace. Ho guardato l’ora e mi sono trascinata in camera, seguita dall’altrettanto assonnata e ciondolante Mary (no, non la mia amante: la mia cagnetta) e ci siamo raggomitolate tra le coltri. Il mio sonno non è quello di un qualsiasi altro essere umano: è discontinuo, per lo più sul limite tra la veglia ed il sonno, tra la coscienza e l’incoscienza, tra l’essere e il non essere. E’ in questo stadio che mi capita di fare sogni strani, ispirati e quasi reali per nitidezza d’immagini e trame verosimili. Così, come se non avessi abbandonato il gorgheggio romanesco del cantante che con un clic avevo riconsegnato all’oblio poco prima, mi ritrovai in una borgata romana, nelle vesti di una popolana madre di una figlia che, anche se affetta da un lieve handicap fisico, era tenera e soave quanto libera e disinibita. A stento la tenevo a freno e le impedivo di uscire, preoccupata per la sua fragilità e la sua disponibilità affettiva, che sarebbe stata senz’altro fraintesa dagli uomini. Lei invece fremeva, desiderosa di mordere la vita. L’insieme ricordava uno spettacolo di musical. Io per lo più cantavo a squarciagola chiamando mia figlia che nottetempo si era arrampicata sul tetto per scappare chissà dove, ormai insofferente del menage iperprotettivo a cui, per il suo bene, la sottoponevo. La sua immagine eterea era avvolta in una camicina bianca, che appariva trasparente contro la luce di una luna complice che le illuminava il percorso. Agile e snella, si arrampicava sui declivi dei tetti, leggera come una farfalla, una farfalla notturna, una falena attratta dalla luce. Io, dietro, a fatica e goffamente, la inseguivo, cantando e farfugliando: “Ma andò vai core de mamma,che ce sta laggiù che t’attira? Nun ce stai bene co tu madre? Laggiù te se magnano! Core mio: fermete! Mò te vengo a pija e se ne tornamo belle belle a casetta nostra! Te preparo un ber bicchierone de latte cardo co na lacrima de miele, te leggo la favola tua preferita, quella de Pollicina, poi s’accoccolamo strette strette sotto e coperte e se mettemo a dormì al caldo e ar sicuro… Embè che c’hai da rimirà?Chi te credi d’esse? Mo, perchè c’hai du peli e du zinne come du olive, te pensi d’esse già na donna? Tu sei na ragazzina, a ragazzina mia! Avoja a pagnotte che hai da magnà pe diventà na donna. Viè, core mio, tornamesene a casa….. ma che stai a fa? Ricominci a core? Fermete che gna faccio, c’ho er fiatone! Nun ja faccio più, fermate fija mia che sinnò me schiatta er core. Ma n’do sei finita? Oddio, quanto sei lontana….. Ma che t’ho fatto, che t’avrò detto mai? Sta attenta, core mio, che te poi n’ciampà. Ma n’do vai senza tu madre, che te credi de trovà oltre sti tetti? Altri tetti, du gatti in amore, un lucernaio acceso de quarcuno che come me nun ja fa a dormì, un gufo co n’sorcio n’bocca. Oddio nun ja faccio più: c’ho le mani che me fanno male, fia mia… fermete! Viemme a aiutà che casco! Nun me sente…Oddioooo!!!”. Crash!!!!

“Aia aiaiaiaiiiii mmazza che botta! Aoooo… no vedi che so cascata. Che ce sto a fa co du cocci in mano? Ah, già: so i coppi n’do me sò aggrappata. Me sà che me so rotta quarche cosa. E gambe… no.. a schiena… me pare nemmeno. Aò: so cascata bene: de culo! Ahahaha! E che me pensavo d’esse? Na scimmia? Cita? Che risate fija mia! Ma, già, tu nun ce stai: stai a cavarcà li tetti, Ma si! E vai, vai dove te pare! E se te capita quarcosa? Io… io che faccio? Da quanno sei nata siamo sempre state insieme, io e te, da sole. Tu padre, quando ha saputo che nun eri come gli artri marmocchi, che c’avevi quer difettuccio, se n’è annato e nun l’o visto più. Quel gran fijo de na m…! Ce sei solo tu pe mme al monno. Ma nun te basto più: tu, sto monno, te lo voi acchiappà, e c’hai ragione! Succeda quel che succeda, tutti sti gran begl’anni passati insieme, amore de mamma, nessuno ce li può portà via, né a me, né a te. Ora che sia fatta la volontà de Ddio. So stanca…me ne sto un po’ qua, stesa tra li fiori freschi e profumati de sto cortile dove sò cascata, a guardà la luna. Ammazzao che luna che c’è sta notte! Luna, te prego, fa luce sulla strada de quella fija mia, e nun solo sta notte, ma tutte le notti. Chiedi un permesso ar sole, all’universo, al Padreterno, a che so io, ma resta vicina alla fijola mia tutta la vita, senza fatte capì da lei, peccarità, artrimenti scappa, come ha fatto cumme. Famme un po’ da spia, un po’ da ruffiana. Fa un piacè a sta madre disgraziata che sa che s’ha da toglie da li cojoni ma nun c’ha ancora er core pè fallo. Che dura ch’è sta vita, che te da er più ber gioijello der monno e poi te se lo ripja sur più bello. Sto gioijello sarà d’altri, sarà contento, forse no, ma non sarà più mio, e io me ne torno ad esse sola, come quanno sò nata fino a quando è nata lei. Fatte guardà ancora per un po’, luna de latte, luna grande, ner buio de sta notte strana. Lasseme un po’ accà, a piagne co le ranocchie e l’usignolo. E nun te preoccupà: appena spunta er sole, me rimetto in sesto e vado a lavorà, come sempre: tanto, s’ha da vive a tutti li costi, no?”

Al risveglio riflettei su come la solitudine delle donne non impedisca loro di trovare la forza di prendere e di dare la libertà.

Manuela Caretta